Giornata internazionale delle persone con disabilità: le sfide e i piccoli traguardi conquistati con pazienza e ascolto nei centri diurni psichiatrici di Ugento e Statte
Luca, Teresa, Giorgio e Sonia: sono nomi di fantasia, ma nascondono storie vere di persone che stanno pian piano ritrovando un equilibrio, dopo tanta sofferenza. E lo fanno attraverso una creatività salvifica, che fa esprimere loro un talento che non sapevano di avere: se stessi. Perché è proprio questo il viaggio che ognuno di noi è chiamato a fare, solo che a qualcuno succede di perdersi per strada. Ma nessuno deve restare indietro. Ce lo ricorda oggi, 3 dicembre 2022, la trentennale Giornata internazionale delle persone con disabilità, indetta dall’Onu nel 1992, che ha tracciato il percorso di un impegno comune da parte dei Paesi membri a garantire l’inclusione sociale delle persone con disabilità, che “è una condizione essenziale per sostenere i diritti umani, lo sviluppo sostenibile, la pace e la sicurezza. L’impegno a garantire i diritti delle persone disabili non è solo una questione di giustizia, è un investimento in un futuro comune”.
È un impegno quotidiano, quello dell’inclusione, della riabilitazione e della restituzione alla società di chi è stato “rapito” da sofferenza, malattia, disagio e degrado: un impegno portato avanti con dedizione dagli operatori dei centri diurni psichiatrici di Sorgente srl, che da 15 anni è un punto di riferimento pugliese per la tutela dei più fragili.
Ed è attraverso gli occhi di chi li ha visti rinascere giorno per giorno che conosceremo le vite di Luca, Teresa, Giorgio e Sonia.
Al centro diurno “Salvador Dalì” di Statte il giovanissimo Luca è arrivato due anni fa, indossando gli stessi abiti che aveva portato per un anno intero, durante il quale era rimasto chiuso nella sua stanza, steso sul letto. Luca evitava lo sguardo di chiunque avesse di fronte, rifiutava qualunque contatto fisico e si esprimeva con suoni indistinti. «È stata una vera sfida per noi, perché era davvero difficile relazionarsi con lui – racconta il dottor Battista Baccaro, direttore del centro diurno tarantino –. E allora abbiamo deciso di aspettare: il nostro è stato un lavoro di grande osservazione, senza voler interferire o disturbare Luca». Poi è arrivata la svolta: dopo mesi, il giovane decide di partecipare per la prima volta a una piccola trasferta di gruppo in un centro di assistenza per animali. E, sempre per la prima volta, Luca sorride mentre accarezza un cavallo: «Ci siamo tutti commossi di fronte a questo piccolo miracolo, che è stato frutto della pazienza e della costanza degli operatori, del non averlo disturbato, di aver rispettato i suoi tempi – continua il dottor Baccaro –. Da quel momento in poi è stato un crescendo: oggi, Luca si esprime con più chiarezza, canta in italiano e perfino in inglese nelle nostre serate karaoke e, quando va via, deve salutare tutti e tutti devono incrociare il suo sguardo, che non è più rivolto verso il basso».
E poi c’è il giovane uomo Giorgio, che fino a qualche anno fa svolgeva attività sportive agonistiche, con ottimi risultati. Ma a un certo punto, la sua strada incrocia quella della dipendenza da sostanze stupefacenti: i suoi pensieri diventano ossessivi, incontrollabili, a volte deliranti. Oggi, a seguito di un’adeguata terapia, il disturbo è rientrato: «Giorgio è una di quelle persone che può reintegrarsi a pieno nel contesto sociale, che può tornare a svolgere un lavoro e vivere una vita multiforme – racconta la dottoressa Alessia Surico, assistente sociale del “Salvador Dalì” –. Ma il giovane non dimentica mai di tornare a trovarci, perché i centri diurni non nascono per affrontare la criticità, ma per rappresentare un punto di riferimento stabile per queste persone. Le nostre porte sono sempre aperte. Purtroppo, il disagio mentale continua a essere visto come qualcosa da nascondere: è più facile raccontare un grave problema di salute di natura fisica. Se una persona ha un disturbo di natura mentale, è difficile che la comunità lo accetti e non lo emargini: ma sappiamo bene, invece, che la cura non è solo quella farmacologica, ma è tutto ciò che ruota intorno alla quotidianità della persona».
Teresa sente da decenni alcune voci che le dicono di non pulire in casa, di non aver cura di sé, di non dire se qualcosa non le va bene. «Poco prima del primo lockdown, Teresa entra da noi esile come un grissino, in stato di abbandono e con lo sguardo che attraversava chiunque di noi – racconta la dottoressa Tania Viva, psicologa del centro diurno “Van Gogh” di Ugento, diretto dal dottor Francesco Francioso –. Rispondeva a monosillabi a ogni nostra domanda e aveva una voce talmente flebile che occorreva un grande silenzio intorno per poterla sentire. Partecipava ai laboratori in maniera totalmente passiva, senza interagire con nessuno: sembrava una statua di cera. Poi è arrivato il primo lockdown e abbiamo avuto davvero paura che le cose potessero degenerare per tutti i nostri pazienti: abbiamo chiamato per telefono Teresa tutti i giorni per due volte al giorno, l’abbiamo stimolata a pulire casa, a prendersi cura della propria igiene e a nutrirsi adeguatamente. E quanta sorpresa, una volta riprese le attività in presenza, quando Teresa ci ha ringraziati per esserle stati vicino in quei mesi di grande solitudine. Oggi le sue abilità assertive sono nettamente migliorate: se ha bisogno di qualcosa, la chiede senza porsi problemi, chiede di poter tingere i capelli, ci sorride e ha imparato anche a “zittire” le sue voci interiori, che la distolgono dalla cura di sé».
Anche Sonia combatte da una vita con delle voci che sabotano la sua identità: 3 anni e mezzo fa è entrata al “Van Gogh” con un’aggressività e una rabbia represse, «che le facevano sbattere i pungi sul tavolo, la facevano urlare al mondo di non aver mai ricevuto nulla, la facevano sospettare di tutti coloro che aveva intorno. Rifiutava la sua malattia e di conseguenza la terapia farmacologica, non voleva il contatto fisico, non tollerava nessun tipo di stimolo esterno, anche il semplice vociare di una conversazione o l’audio della tv: era terrorizzata», continua la dottoressa Viva. Nell’ultimo periodo, però, il cambiamento finalmente è arrivato: se prima Teresa non partecipava ad alcun laboratorio, adesso lo fa e ha accettato di assumere la terapia. «La sua sospettosità si è ridotta notevolmente, tiene alla cura di sé, fa la doccia da noi, ha maggiore attenzione anche verso la cura della casa, nel comportamento è corretta, è più tollerante, e svolge perfino attività fisica nella sala attrezzi del centro. Ma ciò che più ci ha scaldato il cuore è stata la sua richiesta di un abbraccio, non molto tempo fa: e da allora non si è più fermata», conclude la psicologa.